C’è una logica nei sogni. Nei sogni di grandezza si chiama umiltà
Ricordando Ron S. e il grande Ennio
Ho un angelo custode . È mio fratello. Ogni tanto mi dà una mano. Da lui ho imparato che nella vita non bisogna mai darsi per vinti. Dice: “Rolando, cerca di essere sempre nel posto giusto al momento giusto. Il lavoro non ti viene a cercare, ma tu sai dove si trova.”
Ci vediamo poco. Lui dirige grandi progetti in Europa. Dirigere dev’essere bello, ma è un’immensa responsabilità! Io invece ho la libertà di scrivere quello che penso e di dirigere la mia vita (un progetto ambizioso, il secondo).
Daniele dice che tutto è possibile. Perciò vorrei, se il tempo me lo concede, scrivere un libro. La vicenda di un ragazzino che ha perso una miriade di occasioni, eppure ci crede ancora. Si chiamerà Ron il mio protagonista. Un ragazzo altro 2 m e 13 cm che accarezza la palla a spicchi e la schiaccia con rabbia nel canestro. Ha la pelle e la carnagione scura. (Negli Anni 70, anni d’oro del basket ticinese, c’era un certo Ron Sanford (nato a New York l’11 giugno 1946) che giocava nel Pregassona. Erano gli anni dei mitici derby contro la Federale Lugano, il Lugano Mulino Nuovo e - udite udite! – contro il Viganello: tutt’e quattro le squadre di Lugano giocavano nel campionato svizzero di serie A.)
Il mio protagonista è un afroamericano, che ha vissuto nella povertà, nella criminalità, poi nella ricchezza e naturalmente nella politica. Mai stato in Svizzera. Mi ha però ispirato a scrivere una storia. Un racconto ispirato anche dal “ciao” a Ennio Morricone.
Quando la vita uccide la morte, non è mai un caso
In giovane età Ron aveva già tutto ciò di materiale che un umano può desiderare nella vita terrena. Certo, la sua stazza e la sua tracotanza, abbinate a un certo sex-appeal (un dentino d’oro e piercing esagerato sulla fronte) lo avevano aiutato, portandolo in breve tempo a sottomettere la crème de la crème della malavita est-europea da Tbilisi a Darmstadt. Era diventato il re di un incredibile giro di affari: armi, droga, corruzione, tratta di persone. E tutto ciò senza sporcarsi la mani e nemmeno forzare più del necessario il suo pugno di ferro. Si diceva che era anche questione d’astuzia. Il lavoro sporco lo lasciava fare ai bifolchi, i quali poi, stranamente, finivano per farsi fuori a vicenda. Un sistema ben oliato, al limite dell’evidenza che purtroppo lasciava tutti indifferenti. Qui nel mio romanzo subentra però una poliziotta inglese “very smart”.
Così, però, un anche per lui tutto va a rotoli e Ron (il protagonista del mio romanzo) si sdraia sui binari dove passano i treni che da est attraversano le praterie e i boschi della Sassonia diretti verso la Germania e l’Europa occidentale. Ron, cuore arido e ferito, vuole morire. Da lontano si sente l’urlo e lo sferragliare di un treno a vapore. Anche Ron lo sente e per andare “sul sicuro” si alza, come a volere abbracciare la locomotiva, abbracciare la morte. La valanga di acciaio destinata a squassarlo si avvicina a cento all’ora.
Visto che questo è solo il canavaccio e l’inizio di una lunga storia fatta di razzismo, amore e pregiudizi, vi anticipo il colpo di scena, la svolta. Il fischio assordante del treno a vapore che sopraggiunge non impedisce a un altrettanto impavido 60enne, disorientato e senza futuro, di buttarsi sul giovane Ron. Afferrando da tergo il lungo e allampanato quanto disperato Ron. Lo trascina a terra oltre i binari. Entrambi rotolano giù lungo una scarpata e scompaiono. E’ un momento incredibile, come se quel fracasso e quelle grida avessero annientato una morte già decisa, ricordando il titolo di quel famoso romanzo di Garcia Marquez. L’idea della morte che muore deve accompagnare per un attimo il regista di questo racconto. Così, invece di assistere a una scena di sangue in stile splatter, vedo il grigio più grigio, una nuvola di polvere che si alza cancellando tutto: nessuna visuale e mentre il fragore del treno va dipanandosi, lì intorno si ode solo uno stormo di uccelli sollevarsi gridando, cinguettando, gracchiando. Chissà cosa stesse passando per quei cervelli minuti in quel momento? L’ammasso di pennuti urla e vola via. Per una volta è la vita a sopravvivere e il polverone annera lo schermo e la visuale di eventuali testimoni, lasciandoci lì col fiato sospeso. Questa suspense dura lunghi, interminabili rintocchi di un lontano campanile. È un’allegoria della morte che si alza minacciosa con la sua falce ma di lì a poco si perde, disorientata, chissà dove. Poi il nulla e dietro quel nulla: monti, colline, foreste e un sole rovente che accarezza questo sipario irreale di un arancione degno del miglior Van Gogh, si allarga annunciando la vita: gli uccelli si vedono ancora, in lontananza il loro gracchiare diventa un fiato di musica quasi impercettibile - omaggio al grande Ennio - un suono sempre più chiaro, armonico e limpido, ma che al tempo stesso con ogni battito d’ali si attenua spegnendosi nel vuoto, come in un film. Nella mia mente resta questo canto liberatorio, come quel gesto disperato che ha salvato la vita o negato la morte al mio Ron. L’odore di catrame delle traversine è la conferma che io ero lì e che ho davvero assistito a un duello memorabile: vincere o morire. Una scena da Far West. Più tardi Ron riapparirà, ma questo è un altro capitolo che spero di sfogliare presto.
Sono antirazzista in quanto riconosco il mio razzismo – vero ma triste !
Per tornare a Ron Sanford, questo è lo spirito che accompagna la vita di molte giovani persone afroamericane che si gettano con dedizione nello sport ma poi - anche quando vincono - si inchinano o alzano il pugno nero al cielo mentre s’intona The national hindom of the United States of America. Ovviamente in segno di protesta contro il persistente razzismo fatto di pregiudizi, violenza ed esclusione. Fatto di morte.
Oggi, se non fosse arrivato in Europa in gioventù, Ron Sanford sarebbe forse finito come molti giovani afroamericani, sacrificati sull’altare della violenza, della criminalità e del razzismo che tuttora regna nel mondo intero - anche qui da noi. Troppo facile condannare gli americani. Tutto questo ci riguarda.
Mea culpa: ammettere di avere una lieve, odiosa vena di razzismo dentro di sé (dentro di me) è difficile e triste, ma rappresenta il mio primo indispensabile passo verso quell’antirazzista che voglio essere.
Roland A. Stocker
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